In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto della reintegrazione disposta ai sensi dell'art. 18 della L. n. 300/1970, qualora il datore di lavoro deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l'aggravamento del danno, il giudice può valutare, anche d'ufficio, tutte queste circostanze, riducendo così il numero delle mensilità spettanti a titolo risarcitorio.
Tale valutazione può essere effettuata nel silenzio della parte interessata ed anche ove l'acquisizione sia riconducibile ad un comportamento della controparte.
Questo il principio di diritto espresso dalla Cassazione nella sentenza del 27 gennaio 2011, n. 1950, con la quale la Corte è intervenuta nuovamente sulla questione inerente i parametri di quantificazione del danno da licenziamento illegittimo.
Come noto, l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori stabilisce espressamente che, in ipotesi di inefficacia, nullità, annullabilità del licenziamento irrogato al lavoratore subordinato, quest'ultimo ha diritto ad essere reintegrato nel proprio posto di lavoro se l'azienda, presso la quale lavorava, occupa più di 15 dipendenti.
La "reintegrazione", dunque, comporta il ripristino della situazione antecedente il recesso datoriale e si concretizza solo se il datore di lavoro decide di dare attuazione spontanea al disposto giudiziale. La reintegrazione, in sostanza, costituisce un obbligo di fare infungibile.
Ebbene, l'art. 18 sopra richiamato riconosce, poi, sempre in favore del lavoratore riammesso in servizio, il diritto al ristoro del danno subito, il cui ammontare subisce delle variazioni (in rialzo o in ribasso) in presenza di alcuni specifici parametri, quali l'insieme delle retribuzioni maturate dal lavoratore nel periodo intercorso tra la data del licenziamento e la reintegrazione, l'inerzia del dipendente nella ricerca di una nuova occupazione (percipiendum), l'eventuale percezione dell'aliunde perceptum.
L'aliunde perceptum, come noto, è costituito da quei compensi ricevuti a qualsiasi titolo da terzi a fronte dello svolgimento, da parte del licenziato, di un'attività lavorativa. Compensi che, ovviamente, devono essere detratti dall'importo riconosciuto a titolo risarcitorio.
Recentemente, la giurisprudenza ha chiarito che: "Ai fini della determinazione dell'aliundeperceptum da detrarre dal risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, occorre considerare le retribuzioni maturate nel periodo intercorrente tra il licenziamento ed il reinserimento nel posto di lavoro, intese quali compensi conseguiti dal lavoratore, reimpiegando la capacità di lavoro non impegnata nell'attività cessata a causa del licenziamento illegittimo, a prescindere dalla natura delle somme percepite, ovvero contributiva o assistenziale, e dal fatto che si tratti di redditi assoggettabili a contribuzione" (Cass. 21 febbraio 2011, n. 4146).
Ed ancora: "Il risarcimento del danno conseguente alla nullità del licenziamento non può essere decurtato degli importi ricevuti a titolo di pensione, in quanto può considerarsi compensativo del danno arrecato con il licenziamento, quale "aliunde perceptum", non qualsiasi reddito percepito dal lavoratore, bensì solo quello conseguito attraverso l'impiego della medesima capacità lavorativa" (Trib. Trieste 10 maggio 2010).
Al contrario, ai fini di un incremento del risarcimento, il lavoratore può dimostrare di aver subito danni ulteriori rispetto alle retribuzioni perdute. A tal proposito, è stato chiarito che: "In tema di risarcimento dei danni da licenziamento illegittimo, il lavoratore licenziato e successivamente reintegrato che chieda il risarcimento di danni ulteriori alla propria professionalità - subiti nel periodo intercorrente dal licenziamento alla reintegrazione - ha l'onere di provare che tali tipologie di danni abbiano procurato un pregiudizio diverso da quello della mera perdita della retribuzione" (App. Firenze 4 maggio 2004).
Dunque, in tema di quantificazione del danno, anche ai sensi dell'art. 1227 cod. civ., il datore di lavoro è tenuto a dimostrare il comportamento colpevole del lavoratore nella mancata ricerca di una nuova occupazione, oppure la percezione, successivamente al licenziamento, di un reddito da lavoro. Viceversa, il lavoratore è tenuto a provare di essersi adoperato per la ricerca di un'altra occupazione nel periodo che intercorre tra la data del licenziamento e l'ordine di reintegrazione e, se del caso, di aver subito un pregiudizio ulteriore e diverso dalla mancata erogazione delle retribuzioni.
D'altra parte, questo principio trova riscontro in una importante decisione delle Sezioni Unite della Cassazione, le quali, in tempi risalenti, hanno stabilito proprio questo criterio di ripartizione dell'onere della prova (Cass. Sez. Un. n. 1099 del 1998).
Un altro principio autorevole, espresso nella medesima pronuncia e poi riproposto dalla sentenza in esame, consiste nel riconoscere che l'eccezione, con la quale il datore di lavoro deduce fatti che possano determinare una decurtazione del risarcimento del danno, non è oggetto di una specifica disposizione di legge che ne fa espressa riserva in favore della parte.
In definitiva, chiarisce la Cassazione, tale eccezione non integra un'eccezione in senso stretto e, pertanto, è sempre rilevabile d'ufficio, dovendo ritenersi indispensabile soltanto l'allegazione puntuale delle circostanze da cui si deduce la sussistenza di un reddito da lavoro o un comportamento che abbia aggravato il danno.
Ebbene, la decisione in commento, rifacendosi a questo principio, ha chiarito, per l'ennesima volta, che il giudice è tenuto d'ufficio a valutare tutte quelle circostanze utili ai fini della quantificazione del risarcimento, anche se non viene sollevata una specifica eccezione in tal senso.
La vicenda processuale, sottoposta all'attenzione della Cassazione, riguarda il caso di una lavoratrice dipendente che impugnava il licenziamento intimatole per giusta causa, in quanto illegittimo.
In primo grado, la domanda veniva accolta con condanna della società al risarcimento del danno, mentre in appello la decisione veniva parzialmente riformata proprio relativamente al capo di domanda del danno.
In particolare, secondo i giudici del secondo grado, la quantificazione del danno patito dalla lavoratrice doveva essere ridotto a cinque mensilità, poiché la lavoratrice, subito dopo il recesso, aveva tenuto un comportamento poco diligente e, comunque, inidoneo a non aggravare il danno medesimo.
Di conseguenza, la sanzione ripristinatoria, nella misura disposta dal Tribunale, doveva ritenersi eccessiva.
La lavoratrice, avverso la decisione di appello, proponeva, quindi, ricorso per cassazione, lamentando la violazione e falsa applicazione di norme di legge, nonché il difetto di motivazione.
La doglianza verte, principalmente, sulla violazione dell'art. 1227 cod. civ.. Infatti, secondo la ricorrente, la società non aveva avanzato in appello alcuna domanda intesa ad ottenere, in caso di accoglimento del ricorso, la condanna della convenuta al pagamento dell'indennità risarcitoria nella misura minima, né aveva allegato circostanze utili in tal senso.
La Corte respinge il ricorso, ritenendo che il motivo sia assolutamente infondato.
Sostengono i giudici di legittimità che, per costante orientamento giurisprudenziale, la quantificazione del risarcimento del danno è rimessa al libero apprezzamento del giudice, il quale, anche in assenza di un'eccezione della parte, è tenuto a valutare tutte le circostanze utili ai fini dell'applicazione della misura minima.
E' sufficiente, a tal fine, che vi sia stata una rituale allegazione dei fatti rilevanti e che gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti.
In presenza di queste condizioni, il giudice è tenuto a trarre d'ufficio tutte le conseguenze utili ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato (Cass. 20 marzo 2004, n. 5655).
Più specificamente, prosegue la Cassazione, non occorre neppure la formulazione di una domanda specifica che richieda l'applicazione della misura minima, in quanto le cinque mensilità costituiscono il "minimo" previsto dall'art. 18 Stat. Lav. e inderogabilmente dovuto al lavoratore e, quindi, rappresenta una parte comunque irriducibile dell'obbligazione risarcitoria complessiva conseguente all'illegittimo licenziamento.
Di conseguenza, non è necessario proporre una domanda specifica (Cass. 21 agosto 2003, n. 12306), in quanto l'applicazione della sanzione "minima" è ricompresa, seppur implicitamente, nella contestazione, in via generale, del danno.
In conclusione, la Cassazione, respingendo la domanda della lavoratrice, non ha fa altro che conformarsi ai principi di diritto sanciti da un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.
Peraltro, il primo intervento in materia risale addirittura al 1998, l'anno in cui le Sezioni Unite, con la sentenza n. 1099, hanno riconosciuto la rilevabilità d'ufficio di elementi idonei a decurtare l'ammontare del danno.
Può essere utile riportare testualmente il passaggio della sentenza sul punto: "In tema di risarcimento del danno dovuto al lavoratore per effetto della reintegrazione disposta dal giudice ai sensi dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, l'eccezione con la quale il datore di lavoro, al fine di vedere ridotto al limite legale delle cinque mensilità di retribuzione l'ammontare del suddetto risarcimento, deduca che il dipendente licenziato ha percepito un altro reddito per effetto di una nuova occupazione, ovvero deduca la colpevole astensione da comportamenti idonei ad evitare l'aggravamento del danno, non fa valere alcun diritto sostanziale d'impugnazione, né l'eccezione stessa è identificabile come oggetto di una specifica disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte. Pertanto, allorquando vi è stata rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possono ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata ed anche se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato".
Il principio affermato dalle Sezioni Unite è stato successivamente ripreso nelle sentenze n. 6668 del 2004 e n. 21919 del 2010, secondo le quali "in riferimento al licenziamento dichiarato illegittimo, ai fini della sottrazione dell'aliunde perceptum dalle retribuzioni dovute al lavoratore ingiustamente licenziato a titolo di risarcimento del danno secondo quanto previsto dall'art. 18 della L. n. 300 del 1970, è necessario che risulti la prova, da qualsiasi parte provenga, non solo del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione, ma anche di quanto percepito essendo questo il fatto che riduce l'entità del danno presunto".
Cassazione civile - Sentenza 27 gennaio 2011, n. 1950.
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